Polaroid d’epoca

... se non era tardi ci si fermava volentieri a fare le polaroid spiritose nel primo Getty Museum, la famosa Villa Dei Finti Papiri, epitome allora del Kitsch più divertente e ridicolo. Eccole ancora qui, ingiallite o arrossite per la stampa casual, in compagnia delle più exclusive «da brunch fine», scattate e firmate sulle terrazze Volpi al Quirinale da Andy Warhol. (Quando arrivò per la prima volta a Roma, e rimase muto parecchi giorni, come contemporaneamente il ministro Bisaglia alle prime uscite nei salotti romani, fu accompagnato direttamente da Fiumicino all'Aracoeli, perché era deceduta in quel frangente la principessa mamma del fidanzato della sua brava sponsor. Lui scattò una polaroid al feretro).Così rieccoci in pose e basette sfrontate e collane e bermudas d'epoca tra quegli ameni marmi e bronzi falso-tardoromani e le aiuole «botanicamente storiche» e i cespugli «storicamente autentici» in un candido peristilio ercolaneo tutto abbagliante di colonnati e criptoportici nuovissimi. Rieccoci come stupendi Poseidoni capelloni e aurighi basettoni dalle lunghe ciglia ed Eracli tiburtini in calzoncini bianchi e occhialoni neri e ‘polo’ stampate a Cadillac e Chevrolet del Trenta comprate dal Saks di Beverly Hills, tutto travertino romano già allora. Come il Getty Center d'oggidì. Con Laocoonti di Camp Snoopy e gladiatori a baffo pendulo da Chinese Teather negli angolini Winckelmann (vasche e bronzetti di scavi balordi, bacche e zucche citate da Plinio) in canottiere acriliche rosse a bordi bianchi, o gialle a lampi blu, con un Superman o un gelato sulla schiena. (E ci si ‘polaroidava’ di straforo in compagnia del discussissimo ‘efebo’ bronzeo mediterraneo, forse falso ma simpatico per la posa ruffiana: più complice e ‘soft’ che nel suo celebre collega di Berlino, riprodotto in infiniti multipli come premio di profitti scolastici nell'incosciente età Guglielmina).
Forse soltano certi scatti e ciak d'allora in stile «absolutely pompier» fra gli archi e stucchi ‘Beaux-Arts’ frananti messicani e moreschi nel Palace of Fine Arts di San Francisco (Panama-Pacific International Exposition, 1915...) possono tuttora evocare una tale aura di résistance, décadance, insolence. E un ancora innocente «blithe spirit» che dalle spontanee fruste e istintive catene e impulsive cere colorate allegramente ribollenti nei rozzi e naïf backrooms di tutti quei Tool Box e Ramrod e Badlands e Detour e Underworld e No Name e Arena e Faultline e Falcon Lair e Eagle Nest e Rusty Nail e Powerhouse e Rawhide e Plumbers e Butch e Stud nemmeno badava, francamente, a rivoltarsi indietro con musini di circostanza verso la provincia ristretta dei maoismi trucibaldi e infantili, col popolare e familiare gesto del tiè. (Non si era signorili? No, non si era per nulla signorili. E meno che meno, elitari o snob. Solo Provocazione & Trasgressione verso feticci e tabù di stretta prammatica: vaffa, signore compagne e compagni signori, vaffa. Ce ne n'est que le Zeitgeist, baby: tout se tiè).

Alberto Arbasino, Le Muse a Los Angeles, Adelphi, 2000, pagg. 23-25



Ho trovato in questa pagina di Arbasino un movimento in qualche modo analogo a quello delle parole di Coupland che usavamo leggere all’inizio di ogni puntata in radio (e perciò ve l’ho ricopiata): il passaggio dallo sfogliare vecchie polaroid al prendere in esame (con ben altro atteggiamento, è ovvio) lo spirito dei tempi che ce le ha tramandate, e di conseguenza il presente.
Un gesto (là metaforico, qui forse più reale) che arriva a essere politico partendo dalla più effimera delle immagini.

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