Elegia

Paolo Conte - 'Elegia'Per una volta non sono d'accordo con EmmeBi: Elegia, ultimo album di Paolo Conte, non mi pare così magnifico.
Aggiungo subito "purtroppo", perché del post di Michele condivido (e letteralmente) la premessa biografica: in gioventù si ascoltavano Pixies e Public Enemy, "ma quando c´era da imbastire quel timido e sconclusionato spettacolo d´arte varia con le ragazze, era lui che mi forniva le parole chiave. Ok, non sempre funzionava, ma per me andava bene così".

Può darsi che Elegia mi sembri un passo indietro rispetto agli ultimi Novecento e Una faccia in prestito proprio perché non so più prendere a prestito queste parole.
Ma riesce difficile farlo di fronte a episodi che definire laconici è poco (La casa cinese, Chissà, Bamboolah: tre in un disco di Conte sono tantissimi).
Non è una questione di lingua: per fare un esempio dal passato, bastava che nell'Inno in Re Bemolle saltasse fuori quel "qui ci sei tutta tu", che più colloquiale non si può, per fare venire la pelle d'oca.

Oppure può darsi che io non sia riuscito a capire il perché di questo sottrarsi di Conte oggi, la sua scelta di abbandonare le orchestrazioni sontuose degli ultimi due album (e per non citare l'episodio Razmataz del 2000 o i due Tournée) e preferire forme più scarne.
Quasi tutte le canzoni di Elegia cominciano pianoforte e voce, in alcuni casi gli altri strumenti si aggiungono in seguito, pochissime le percussioni. Quando non succede (come in Sandwich man o La giacca nuova) si respira tutta un'altra aria.

Poi, certo, ci sono colpi magistrali di cui solo Conte è capace: la storia di Il Regno del tango, Sonno elefante o la stessa Elegia (che non può non ricordare proprio la title track dell'album precedente).
Ma mi manca qualcosa, arrivato in fondo, qualcosa a cui aggrapparmi, qualcosa da abbracciare. Dove sono finiti quei due delle Architetture lontane?

Commenti

Anna Maria Fogliano ha detto…
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