L'Arte contro il Contenuto


"We look to art for escape from our everyday routines, but we turn to content because it fits so seamlessly into our everyday routines."
È da una settimana che cerco le parole giuste per commentare l'articolo Living in the Age of Art vs Content, scritto su MBV da Matt LeMay (firma di Pitchfork e già cantante dei Get Him Eat Him). Il pezzo è forse una delle riflessioni più interessanti intorno allo stato attuale della musica lette in giro negli ultimi mesi, se non anni. Certo, le cose sono sempre più complicate e non si può condensare tutto in una formula, ma il passaggio dalle battute ironiche da Hipster Runoff (che pure ci piacciono) al ragionare intorno ai cambiamenti del consumo (e della produzione: vedi lo studio di registrazione sponsorizzato Converse) è necessario.
Se accettiamo che "brand" o "virale" siano ormai parole utili a comprendere il presente più di "indie" o "artista", quali sono le conseguenze? Per esempio, nei commenti all'articolo di LeMay la Asthmatic Kitty Records può affermare tranquillamente che "each person is now his own brand, and justifiably needs a life soundtrack to personally identify and reinforce that brand", e la cosa passa senza clamori.
Insomma, vedo in giro queste cose e noi qui, che passiamo più tempo sui feed reader che nei negozi di dischi o ai concerti, dovremmo essere capaci di formulare un'opinione sensata. Io almeno volevo provarci, giuro, poi ieri (su segnalazione di Nur) mi è capitato di leggere questa cronaca sul "Rapporto Economia della Musica in Italia 2010", e mi ha messo una gran tristezza. Numeri a parte, mi sa che certe riflessioni qui non servono, riguardano proprio un'altra forma di vita, un pianeta che segue altre orbite, e che in Italia resteremo nei secoli a discutere di X Factor, di "un ritocco alla legge sul diritto d'autore" e di tavoli con le Regioni, concludendo che "l'esperienza Radiohead sul download gratuito si è rivelata tragica".

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